Castelnovo ne’Monti – Cattaneo-Dall’Aglio

Anselmo e Renato Guidi, e Pierino Ruffini

Anselmo e Renato Guidi

(5G Istituto Cattaneo-Dall’Aglio – 2017)

Guidi Anselmo nato a Castelnovo ne’ Monti il 27 ottobre 1898 figlio di Lorenzo Guidi e Moratti Marcellina , coniugato con Giovani Benilde a Castelnovo ne Monti il 23 agosto 1928.
Professione: mezzadro per la famiglia Capanni di Castelnovo, abitava in località Maestà.
La famiglia ben presto cresce con l’arrivo di Maria, Renato, Lorenzo e Luisa.
Di idee antifasciste, si presenta alla Casa del Fascio insieme al figlio Renato l’8 ottobre 1944 per ritirare il lasciapassare che gli avrebbe permesso di muoversi liberamente nel territorio del comune. Trattenuti per un giorno vengono poi condotti a Felina, da dove il giorno successivo proseguiranno in corriera per il campo di smistamento di Fossoli.
La figlia Luisa ricorda il passaggio di questa ottantina di uomini lungo via Roma e lei che dalla finestra salutava il padre ed il fratello, questo è l’ultimo ricordo che ha di loro vivi.
La vita della famiglia diventa molto più difficoltosa, la loro casa fu confiscata dai tedeschi e i bambini si dovettero trasferire, mentre Lorenzo e Benilde rimasero ad accudire gli animali.
Il ritorno da Khala di un sopravvissuto, il signor Guido Ruffini, fratello gemello di Pierino Ruffini per il quale oggi abbiamo posato una pietra d’inciampo in ricordo, diede loro purtroppo la conferma che erano entrambi morti e portò loro il portafoglio di Anselmo.
Da un documento redatto dai sovietici che liberarono questa zona della Germania, appare il nome di Guidi Anselmo nell’elenco dei morti riconoscendone come causa del decesso l’insufficienza cardiaca. Dopo la morte del figlio Renato, avvenuta presumibilmente per fame il 6 marzo1945, Anselmo si lasciò morire dal dolore pochi giorni dopo il figlio, come appare dai documenti inviati dalla Croce Rossa Internazionale.
Entrambi furono sepolti in fosse comuni nel cimitero di Khala.
Le condizioni della famiglia dopo la guerra furono molto critiche, dovettero abbandonare il lavoro di mezzadri e sopravvissero solo grazie al lavoro di Benilde come lavandaia fino a quando non ottennero un alloggio dal comune e un’ occupazione all’ospedale locale.
Grazie ad un incontro con la nipote Paola abbiamo ricostruito il percorso del deportato, simbolo della grande ingiustizia subita dalla popolazione civile nel periodo bellico.
Ripercorrere le vicende personali e famigliari di Anselmo e Renato ci ha costretto a guardare un periodo tragico del nostro territorio, prendendo coscienza di ciò che prima non consideravamo neppure, pensando alla storia come a qualcosa di distante dal nostro quotidiano.
La storia non è fatta solo di grandi battaglie e famosi politici, ma anche da gente comune che con gesti semplici di protesta ha modificato il corso degli eventi.

“Può un ragazzo di diciassette anni vivere qui, lontano da casa? Il lavoro estenuante, il cibo scarso, ore nel buio, chino su questo acciaio, per questa maledetta guerra; combattiamo da queste gallerie obbligati a servire ideali che non ci appartengono.
La paura, il freddo, le ferite, sento il mio corpo annaspare per la luce, vedo le mie membra pendere asteniche, mosse solo dalla speranza di rivedere la mia patria, i miei monti, i miei amici, di riabbracciare mia madre.
Non ci dicono nulla, le uniche parole che ci rivolgono sono insulti urlati in una lingua sconosciuta, non capisco perché mi percuotono, perché mi hanno reso schiavo, costretto a mangiare in terra come i cani, di cosa sono colpevole? Forse di credere ancora in Dio e non nel Fuhrer.
I miei occhi scrutano opachi attorno, ricercano qualche colore diverso dal nero e dal fumo, le mie orecchie odono il pianto dei fratelli, il tuonare delle armi, il mio naso percepisce l’acre odore del ferro e del fuoco; rivolgo al cielo un grido, un ultimo sussulto, invidio quei corpi che giacciono ai miei piedi, nel morire del giorno ora fuggo, la dove non possono colpirmi, là dove morbidi colli in dorate schiere si inchinano alla carezza del vento, un lieve fiocco di pietà si posa sullo spasimo.
Un corpo cade, libero in un perenne sorriso di equilibrio nell’eternità di un battito; un umo vive, morto sepolto dal raccolto nullo mietuto nell’impeto dell’anima che urlando, tace.”

Pierino Ruffini

(5F Istituto Cattaneo-Dall’Aglio – 2017) 

Quest’uomo, uno come molti, uno come tanti, uno come noi. Uno che da quando è nato nel 1901 insieme al suo gemello Guido, ha vissuto una vita non agiata come quella di oggi, ma una vita allora considerata normale, che a lui sarebbe piaciuto continuare a vivere. Ha visto la Grande guerra, ha visto il fascismo, poi di nuovo la guerra. Un giorno viene chiamato nella casa del fascio, l’attuale teatro, con un inganno: gli uomini devono ricevere un lasciapassare per entrare e uscire da Castelnovo, occupato dai tedeschi. In molti si radunarono in teatro, era il 9 ottobre del 1944, un giorno grigio di nebbia e pioggia. La sera vengono chiuse le porte e gli uomini che sono rimasti dentro non conoscono il loro destino. Verso sera in colonna vengono condotti a Felina, da lì a Fossoli. Da Fossoli in Germania a Kahla. Durante il viaggio non sanno a cosa andranno incontro, il pensiero va alla moglie Maria. Nell’ultima lettera le raccomanda di farsi coraggio, di pregare per lui e che tornerà presto. A Kahla lavorerà in una fabbrica sotterranea di aerei da guerra dove, insieme ai suoi paesani, viene sfruttato fino al sopraggiungere della morte per sfinimento e infinite sofferenze il 27 febbraio 1945. I suoi resti sono nelle fosse comuni del cimitero di Kahla insieme a migliaia di altre vittime del nazismo.

Questa storia, come tante altre anche oggi, ci fa capire quanto l’uomo possa essere crudele verso i propri simili e come la guerra non cambia mai, irrompe nelle vite delle persone innocenti e le sconvolge. Questa pietra ricorda che Pierino qui è vissuto da uomo libero, prima che il fascismo e il nazismo lo privassero di tutto quello che aveva: una famiglia, una casa, una vita. La storia insegna soltanto però a chi la vuole ascoltare.  

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